Lo scorso 8 giugno, a Perugia, è stata presentato il nuovo numero della Rivista di studi geopolitici EURASIA: l'evento ha registrato la presenza di Andrea Fais, uno dei due autori del libro, in qualità di relatore. L'intervento dell'autore ha compreso una rapida presentazione del libro nel quadro di una ricostruzione sintetica sulla global strategy della Cina in Africa e sulla politica di sicurezza della Repubblica Popolare nella regione autonoma cinese dello Xinjiang.
Di seguito il contributo audiovideo:
Lo scorso 23 giugno a Milano, invece, Diego Angelo Bertozzi, ha partecipato ad un evento organizzato dall'associazione culturale Primo Ottobre, dedicato alla Cina, dove è intervenuto per parlare della politica estera della Repubblica Popolare Cinese. Qui di seguito un suo resoconto dell'intervento pronunciato durante lo svolgimento della sessione.
DIFESA DELLA SOVRANITA’ E ASCESA PACIFICA: LA BASE DELLA
POLITICA ESTERA DELLA REPUBBLICA POPOLARE CINESE
Nel 1918 un giovane Mao, ancora
influenzato dalle idee anarchiche, fonda nello Hunan la Società di studio del
Popolo Nuovo. È una delle prime associazioni studentesche che si diffondono in
Cina alla vigilia del movimento antimperialista del 4 Maggio 1919. Quanto al
futuro della giovane repubblica cinese le idee sono già chiare: “Dovete sapere che gli stranieri vogliono
prendere le terre della Cina, vogliono prenderne il denaro e danneggiare il
popolo cinese. Non intendo vivere con questa prospettiva senza fare nulla,
quindi ora stiamo cercando di fondare una associazione per rendere forte la
Cina, in modo che i cinesi possano trovare una nuova strada. Il nostro scopo è
guardare al giorno della resurrezione della Cina”.
Alle spalle ci sono i fallimenti
dei tentativi di modernizzazione dell’Impero e lo stentato sviluppo della
rivoluzione repubblicana del 1911.
Questa citazione rende evidente come sia impossibile nel caso cinese
disgiungere movimento rivoluzionario e
movimento di liberazione nazionale, rivoluzione socialista e recupero della
dignità e dell’indipendenza. Il successo della rivoluzione condotta dai comunisti
deve essere valutato per ciò che è veramente stato: il ritorno della Cina alla
piena sovranità dopo un secolo di umiliazioni (1840-1949).
Il ricordo di essere stata
l’unica regione del Mondo in cui hanno operato tutti gli imperialismi della
storia moderna (la Cina come “ipocolonia” secondo la definizione di Sun
Yat-sen) e in cui è stato sperimentato l’intero campionario delle forme di
influenza straniera è ancora ben vivo nel discorso pubblico cinese e
soprattutto nell’autobiografia del Partito comunista cinese. Lo hanno
dimostrato da ultimo le due importanti celebrazioni che hanno caratterizzato il
2011: il 90° anniversario della fondazione del PCC e il 100° della Rivoluzione
di Xinhai che portò alla fine dell’impero.
In occasione del discorso
ufficiale il Presidente della Repubblica popolare Hu Jintao ha nuovamente
ancorato la storia del partito e della rivoluzione nella secolare lotta contro
la dominazione straniera. Il messaggio è quanto mai chiaro: i comunisti sono
gli eredi legittimi di quella lotta, ne hanno preso il testimone per portarla
al successo e ora continuano a difenderla: “La
nascita del partito comunista è il risultato logico dello sviluppo della storia
moderna e contemporanea della Cina e della ricerca ostinata del popolo cinese a
favore della salvezza nazionale. Da allora, la rivoluzione cinese ha trovato la
sua giusta traiettoria, il popolo cinese cominciò a dotarsi di una potente
forza morale e la Cina si è promessa ad un bell’avvenire”.
L’augurio che ha accompagnato la
nascita della Società di studio del Popolo Nuovo ha così trovato la via della
sua realizzazione.
Concludiamo questa premessa: i primi anni di vita vedono il Partito
comunista alleato con la borghesia nazionalista e progressista guidata da Sun
Yat-sen, in un Fronte unito che agisce con l’appoggio della Russia sovietica e
dell’Internazionale Comunista. Da Mosca era arrivato il messaggio di
solidarietà alle lotte di liberazione nazionale condotte dai popoli umiliati
dal colonialismo. Crediamo sia noto a tutti il discorso fatto da Mao al momento
della proclamazione, l’1 ottobre del 1949, della Repubblica popolare cinese, ma
riprenderne un passaggio ci permetterà di comprendere la seconda parte di
questo intervento: “
Ci siamo uniti, con
la guerra di liberazione nazionale, abbiamo abbattuto gli oppressori interni ed
esterni […]. Da oggi il nostro popolo entra nella grande famiglia dei popoli di
tutto il mondo, amanti della pace e della libertà”.
Con queste premesse è facile
capire come la Cina popolare, consumata la rottura con l’Urss, abbia fatto
propria l’eredità della Conferenza di Bandung (1955) che sancì la nascita del
movimento dei non allineati e che rappresentava milioni di persone uscite dallo
sfruttamento colonialistico. È in quella storica riunione che viene
riconosciuto ad ogni Paese il diritto di essere arbitro esclusivo del proprio
destino ed è enunciato il principio del rispetto, nel comune impegno contro il
colonialismo, delle diverse vie di sviluppo scelte da ogni Paese in piena
sovranità.
I principi della coesistenza
pacifica che regolano la politica estera cinese altro non sono che l’assunzione
dei punti del consenso di Bandung: rispetto della sovranità e della integrità
territoriale, non aggressione, non ingerenza negli affari interni, parità e
reciproco vantaggio negli scambi commerciali.
Chiaro è il rifiuto della logica
bipolare della guerra fredda a favore di un equilibrio multipolare contro
qualsiasi di pretesa egemonica. Cosa intenda Pechino per pretesa egemonica lo
ha chiaramente espresso Deng Xiaoping in una intervista del 1982. Il perseguimento
dell’egemonia è il tratto distintivo di una superpotenza: “è superpotenza un Paese imperialista che ovunque fa subire agli altri
Paesi le sue aggressioni, i suoi interventi, il suo controllo, le sue imprese
di sovversione e di saccheggio. È un Paese che porta avanti un disegno di
dominio basato sulla forza”. E così
continua in relazione alla Cina: “Molti
amici chiedono che la Cina sia leader del Terzo Mondo, ma noi diciamo che la
Cina non può essere leader, altrimenti si farà dei nemici. Coloro che praticano
l’egemonismo sono screditati. Agire da leader del Terzo Mondo ci procurerà una
cattiva reputazione. Questa non è falsa modestia, ma una considerazione di
ordine politico”.
Era ormai alle spalle, quindi,
ogni logica di esportazione della rivoluzione.
Ora un salto in avanti per arrivare ai giorni nostri: nell’ottobre del 2011
Pechino ha pubblicato il Libro Bianco “La Cina e il suo sviluppo pacifico”,
sostanzialmente ignorato dalla nostra stampa, , ma che per rappresenta la base
della azione cinese per gli anni a venire sul palcoscenico internazionale. In
questo documento è ribadito che l’ascesa della potenza cinese ha carattere
pacifico e che lo sviluppo economico ha come fine quello dell’uscita completa
dal sottosviluppo e la garanzia di un benessere crescente della propria
popolazione. Un ambiente internazionale caratterizzato da cooperazione
internazionale e relazioni pacifiche è ritenuto fondamentale per la
prosecuzione dello sviluppo economico e sociale cinese. E ad essere ribadite
sono ancora le indicazioni di Deng e i principi di Bandung: “La Cina rifiuta di
gestire le relazioni con gli altri Paesi sulla base dei regimi sociali o dei
fattori ideologici. Essa rispetta il diritto degli altri popoli alla scelta del
loro sistema sociale e della loro via di sviluppo, non interviene negli affari
interni degli altri Paesi, si oppone a che in grande Paese maltratti un piccolo
Paese e che un Paese forte maltratti uno debole, e lotta contro l’egemonismo e
la politica del più forte”.
A riaffermare l’egemonia – con i
fatti che seguono puntualmente alle parole - sono invece gli Stati Uniti che
conducono una strategia di accerchiamento ai danni di Pechino. In occasione del
60° anniversario dell’ANZUS (alleanza militare tra Australia, Nuova Zelanda e
Stati Uniti), un ferro vecchio della strategia di contenimento del comunismo in
Asia, Obama ha rivelato la decisione di aprire una base di Marines a Darwin, in
Australia, entro la fine del 2012 – base che si aggiunge a quelle delle isole
Marshall, Guam e Okinawa - e dichiarato
con solennità che “chiuso un decennio segnato da due guerra sanguinose e
costose come Presidente ho preso la decisione strategica di rilanciare il ruolo
americano nell’area dell’Asia orientale e del Pacifico […]. Gli Stati Uniti
concentreranno qui i loro sforzi per ridefinire la regione e il suo futuro
sulla base dei principi che gli sono propri”.
Il riferimento alla ridefinizione
in base ai principi americani è l’ennesima riproposizione della tematica della
missione di civiltà e della vocazione universale della american way of life.
Non si scherza neppure da parte repubblicana se si tiene presente che Aaron
Friedberg (consulente già di Dick Cheney e poi di Mitt Romney) invita
apertamente a contrastare la sfida geopolitica di Pechino sia sul piano diplomatico
che su quello commerciale. Per lui Pechino deve capire che “non può separare Europa, Usa e le democrazie
asiatiche, deve sentire lo stesso messaggio da tutte le democrazie del mondo”.
Un programma che invita ad una sorta di crociata generalizzata anti-cinese;
minaccia che ricorda la missione di civiltà compiuta nel 1900 dalle potenze
imperialiste per schiacciare la rivolta dei Boxer.
All’inizio di giugno, in
occasione dell’Asia Security Summit di Singapore, il segretario alla Difesa
statunitense Leon Panetta ha nuovamente sottolineato che sicurezza e prosperità
degli Usa dipendono dalla situazione dell’Asia Pacifico e che gli Stati Uniti “sono parte della famiglia delle nazioni del
Pacifico”. Perché “nel corso della
storia abbiamo combattuto guerre, versato il nostro sangue e impiegato le
nostre forze per difendere i nostri interessi vitali nella regione. Lo dobbiamo
a tutti coloro che hanno combattuto e sono morti per costruire un futuro
migliore per tutte le nazioni in questa regione”.
Nel concreto come si sosterrà
questo impegno? Entro il 2020, sempre secondo le indicazioni del segretario
alla Difesa, la Marina Militare riposizionerà le sue forze tra Atlantico e
Pacifico da un rapporto di 50 a 50 a uno di 40 a 60; saranno rafforzati i
parternariati con diversi Paesi della regione (Giappone, Corea, Thailandia,
Filippine, Singapore e Vietnam) attraverso presenza di truppe, fornitura di
armamenti sofisticati e esercitazioni militari congiunte.
A fare da supporto alla pressione
diplomatico-militare persiste, anzi pare aumentare, una campagna di
demonizzazione anti-cinese che si alimenta della consueta retorica
diritto-umanità a difesa dei dissidenti e delle popolazioni tibetane e uigure,
presunte vittime di genocidio culturale e repressione. Il ritratto costruito è
limpido e netto: la Cina – tranne quando le si chiede di intervenire per
salvare l’economia internazionale – è l’emblema dello Stato totalitario
negatore di diritti (ovviamente per portare avanti questa operazione devo
essere espunti dal campo dei diritti umani quelli economico-sociali in merito
ai quali Pechino ha compiuto indubbi progressi).
E se la Cina è uno Stato
totalitario è ovvio che si schieri contro le aspirazioni alla libertà dei
popoli. Quando nel febbraio del 2012 Russia e Cina hanno posto il veto in
Consiglio di Sicurezza in merito ad una risoluzione sulla Siria tanto
sbilanciata da poter innescare l’ennesima aggressione militare, si è subito
guidato al fronte unito delle dittature contro la democrazia, evitando ogni
sorta di ragionamento sulle motivazioni di quella decisione e, soprattutto,
chiudendo gli occhi di fronte allo scempio commesso in Libia dalla cura
democratica della Nato.
Ebbene è facile comprendere la
posizione cinese proprio perché abbiamo chiarito i principi alla base della sua politica
estera e perché Pechino, dopo una discutibile astensione sulla risoluzione 1973
sulla Libia, ha subito preso posizione contro quello che ha definito “Nuovo
paradigma di interventismo umanitario”, grazie al quale per sovvertire un governo
sgradito non servono una invasione o una occupazione militare, ma è sufficiente
utilizzare e mobilitare movimenti di opposizione interna debitamente istruiti,
finanziati e armati (è a conoscenza di tutti, grazie anche alle rivelazioni
della stampa, quanto accade in Siria).
In un pregevole, quanto
condivisibile, intervento su Xinhua del settembre dello scorso anno, possiamo
leggere che “la guerra alla Libia è una ulteriore dimostrazione che l’Occidente
non esita ad intervenire negli affari interni di un Paese con ogni mezzo per
assicurare i suoi interessi nazionali. Se in questi ultimi anni ha fatti
ricorso a mezzi più o meno dissimulati di rivoluzione colorata per promuovere
la ‘democratizzazione’, la guerra di Libia è il modella della democratizzazione
realizzata direttamente con l’uso delle armi”.
Eppure la posizione cinese sulla
vicenda siriana è fin dall’inizio molto chiara: assoluta contrarietà a
qualsivoglia ipotesi di interventi armato per rovesciare un governo legittimo.
E, soprattutto, non si tratta di una posizione appiattita sul sostegno acritico
al governo di Assad. Non è, infatti, un segreto che Pechino veda come via di
soluzione l’avvio di riforme interne e l’apertura di un dialogo tra governo e forze di
opposizione nazionali e patriottiche (tra queste i comunisti).
Dall’altra parte c’è una
autonominatasi “comunità internazionale” , meglio conosciuta come “Amici della
Siria” che ha promesso di stanziare una somma di 276 milioni di dollari a
favore del Consiglio di transizione Siriano e del Libero esercito siriano e di
fantomatici aiuti umanitari per le popolazioni colpite dalla repressione
governativa. Tra gli aiuti umanitari figurano anche – come specificato dal
segretario di Stato Hillary Clinton – mezzi per testimoniare e far conoscere la
repressione. Insomma si tratta di sostenere una vera e propria guerra
informativa per sostenere una eventuale operazione d guerra!
Il quadro è chiaro: da una parte
stanno Paesi e potenze interessate ad attizzare il fuoco delle discordie
interne per giustificare una intervento “umanitario”, dall’altra ci sono Paesi
e potenze emergenti come la Cina che insistono per una soluzione interna
attraverso il dialogo.
Occorre sottolineare che la
posizione di Pechino è sostanzialmente condivisa dai Paesi come la Russia, il
Brasile, India e Sudafrica (che pare non facciano parte della comunità
internazionale). Nella risoluzione finale del quarto vertice dei BRICS (Delhi,
marzo-aprile 2012) si legge: “Esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per
la situazione attuale in Siria e chiediamo la fine immediata di ogni violenza e
delle violazioni dei diritti umani in quel Paese. Gli interessi globali
sarebbero meglio serviti se si affrontasse la crisi con mezzi pacifici che
favoriscano ampi dialoghi nazionali che riflettano le legittime aspirazioni di
tutti i settori della società siriana e rispettino l’indipendenza siriana,
l’integrità territoriale e la sovranità. Il nostro obiettivo è quello di
facilitare un processo politico siriano inclusivo”.
Considerazioni simili si trovano
anche nel comunicato finale del vertice della Shanghai Cooperation Organization
(Pechino, giugno 2012): “Gli Stati membri del gruppo si Shanghai sono contro
un’interferenza militare negli affari interni della regione (Medio Oriente e
Nord Africa), sanzioni unilaterali e cambi di potere forzati. […] Gli Stati
membri sottolineano la necessità di fermare ogni violenza sul territorio
siriano, da qualsiasi parte essa venga, rispettano il dialogo nazionale, basato
sull’indipendenza, l’integrità territoriale e la sovranità della Siria”.